"Il segno dell’eternità" di Tiziana Fuligna
«L’uomo di Lascaux creò dal nulla il mondo dell’arte, nel quale ebbe inizio la comunicazione fra spiriti.»
Georges Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte, 1955¹
Nel suo scritto cardine, Gillo Dorfles² segnava i tre punti fondamentali per comprendere un’opera d’arte della sua (e nostra) contemporaneità: il segno, il gesto e la materia. Nell’arte contemporanea, nelle diverse accezioni, le grandezze del tempo e dello spazio non sono più quelle prospettiche del sistema euclideo ma diventano entità autonome: il tempo non è più quello della narrazione ma è dentro il gesto dell’artista, veloce o lento che sia, bloccato nello spazio materico o fermato nel segno. Le opere di Andrea Benetti sono già di primo acchito estremamente piacevoli allo sguardo: segni apparentemente casuali compongono forme vivaci e materiche. Opere edificanti, colorate, amabili, figurazioni non di qualcosa di percepito, ma innegabilmente di qualcosa che deve essere ancora percepito: non vi è nelle forme che si costruiscono nello spazio della tela una corrispondenza col reale e, tuttavia, sono forme che devono essere osservate, che devono essere vedute nel dettaglio perché effondono e infondono il desiderio di essere guardate. Si offrono all’osservatore come qualcosa da vedere e decodificare. Definirli dipinti risulterebbe in questo caso riduttivo, sono a tutti gli effetti sculture, con le loro ombre e la loro consistenza plastica. La tecnica raffinata è il primo strumento di lettura: differenti materiali sono stesi sulla tela con spatole e arnesi di vario tipo, secondo una sequenza rituale; sui livelli che si vengono a formare sono impressi oggetti, presi dalla vita quotidiana, e disegnate incisioni a mano libera che si alternano fluide fino a comporre le forme finali. È un processo creativo complesso che unisce gesti antichi e modi contemporanei, colori che hanno l’odore di spezie (conservate con cura in vasetti di vetro) e sfumature di ossidi, compendio di un segno dinamico e al contempo esuberante, astratto eppure figurativo. Le forme sono tracciate da righe scure e ombre, da resine e colori ad olio, da caffè, henné, curcuma, tutte sostanze sciolte nei liquidi per formare i colori; queste forme, sempre diverse eppure sempre uguali, si intersecano, si contaminano fra loro, e talvolta compongono simboli ancestrali o sagome stilizzate di animali e di uomini. Sono le forme delle origini, i segni e i simboli che “i colleghi” paleolitici hanno incisi nella storia e lasciati come testimonianza nelle grotte e sulle rocce. Scrive l’artista nel Manifesto dell’arte Neorupestre, redatto nel 2006 e esposto alla 53ª Biennale di Venezia: «Nelle grotte della preistoria, ove gli “artisti rupestri” tracciavano i propri segni e spargevano i colori, era già stato inventato tutto; le opere figurative, astratte, simboliste, concettuali… Le future strade dell’arte pittorica erano già delineate nel complesso; nulla mancava all’appello. Ripartiamo, allora, da quelle intuizioni geniali, istintive, che venivano dal cuore ed avevano la forza dell’infante, che traccia segni e colori, spesso inconsapevole dei significati intrinsechi delle proprie creazioni, poiché generate da un livello subcosciente ed affiorate al conscio senza mediazioni»³. Negli abissi dell’inconscio l’uomo preistorico conservava ancora la memoria iconica originaria che riversava dentro il suo processo creativo⁴; come quel segno arcaico, anche questo di Benetti vuole ricollegarsi a quel bagaglio mnemonico, e così sancire il ritrovato rapporto fra microcosmo e macrocosmo. Nella ricercata rinuncia alla narrazione c’è la volontà di ritrovare il simbolo: il pensiero viene inciso e impresso nel gesso e nelle resine colorate, così come l’antico progenitore fondeva il proprio nella roccia. Gli strati di materiali che si sovrappongono sulla tela sono l’equivalente moderno del supporto senza forma sul quale l’uomo preistorico lasciava le sue pitture rupestri. I segni e i colori fusi nel supporto sono dichiarazione del connubio fra forma e forza, fra uomo e natura. In questa nostra società liquida, dove ognuno di noi non è che uno dei tanti, dove il gesto è al contempo azione di consumo e azione consumata, e il segno è spesso quello effimero del qui e ora, dove le cose hanno superato la loro fine e noi stessi siamo oltre la realtà, l’artista Benetti ritrova invece una sua dimensione e in tale dimensione l’opera dà corpo al suo significato. Come l’artista arcaico, Benetti rappresenta la memoria dell’uomo nell’esplosione delle forme, immagini di sé e dell’universo, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, smembrate e poi ricomposte, infine riunite in un modello ancestrale di perfetta unità. La materia si piega al gesto per comporre il segno, la forma è marcata dal prodotto di consumo, l’attaccapanni dell’Ikea, rubato a quella vita liquida a cui l’artista cerca di sfuggire. L’attaccapanni oramai irriconoscibile, la cui sagoma è prima impressa e poi ripassata col colore, ritorna in molte opere; non è un ready – made ma uno strumento di lavoro con cui l’artista realizza il quadro, esattamente come la scheggia di pietra o l’utensile per l’uomo preistorico. Il medium è il messaggio. Il risultato è un’equilibrata ramificazione di forme e colori, che talvolta restano astratte, altre volte diventano riconoscibili; l’opera diviene così il rituale attraverso cui riportare l’essere umano alle sue origini e dare all’arte la sua funzione salvifica, restaurando il rapporto dell’uomo con il cosmo. Gli artisti, come dice Danto⁵, producono sogni. Nell’opera di Benetti c’è il tempo dell’uomo – e, dunque, il tempo della storia; tutto è già successo e tutto deve ancora accadere in una compiuta unità metafisica del segno, sintesi di un’eternità che rischiamo di perdere, fermata e lasciata in eredità alla dimensione plastica e materica dell’immagine finita. È il sogno di un mondo ancora possibile. È il sogno di una comunicazione fra spiriti ancora vivi. È il segno dell’eternità. Rigorosamente pop.
¹ G. Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte, Mimesis Edizioni, Milano 2007, p. 19.
² G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’Informale al Postmoderno, Universale Economica Feltrinelli, Milano 1993.
³ A. Benetti, Manifesto dell’Arte Neorupestre, Bologna 7 Dicembre 2006. Il Manifesto è stato presentato dall’artista nel 2009 alla 53. Biennale di Venezia, all’interno del padiglione “Natura e sogni” presso l’Università Ca’ Foscari – San Giobbe – Cannaregio – Venezia.
⁴ Cfr. M. C. Citroni, Le incisioni rupestri della Valcamonica sono simboli di una via iniziatica verso la conoscenza?, Estratto riveduto e corretto da Appunti n. 11, Breno, aprile 1990, pp. 1–5.
⁵ A. C. Danto, Che cos’è l’arte?, 2013, Johan & Levi Editore, Milano 2014.
Prof. Tiziana Fuligna |
già Prof. Storia dell’Arte Contemporanea |
Università di Urbino |