"Arte senza tempo” di Marzia Ratti
“Finalmente ho trovato il mio maestro” pare dicesse (ma non se ne hanno prove certe) Pablo Picasso al cospetto dell’enigma dei dipinti di Lascaux. Certamente, la scoperta fortuita delle grotte di Lascaux in Dordogna ebbe un forte impatto sulla cultura europea del Novecento sia sotto il profilo della fascinazione segnica, che si incontrava perfettamente con le varie ricerche di riduzione dei linguaggi formali, sia sotto il profilo filosofico e scientifico che si interrogava sui significati di quelle prime forme di rappresentazione tra realtà, simbolo e codici di comunicazione di complessa interpretazione.
Da Altamira, Pech Merle, Lascaux in avanti, Il ruolo che le arti primitive hanno svolto nella ricerca contemporanea è stato talmente forte ed esteso da incidere profondamente nello spostamento in avanti dei limiti dei linguaggi visivi. Molti anche fra i grandi astrattisti italiani, ad esempio, si sono confrontati con esse ed hanno ripercorso alcune icone dell’arte rupestre, con interrogazioni soggettive che di sicuro partivano da curiosità intellettuali scaturite da visite ai santuari preistorici o da letture archeologiche dedicate alle origini dell’arte. Prendiamo il caso del ciclo delle impronte di mani di Giulio Turcato, del tutto casualmente esposto per specimen al CAMeC della Spezia nella mostra monografiche che gli è stata dedicata, e vediamo come l’artista risolva in un’assoluta ricerca avanzata del secondo Novecento l’immagine fra le più classiche e diffuse del repertorio dell’arte rupestre fra Gravettiano e Maddaleniano.
Non sorprende dunque ritrovare questo potente interesse per l’arte rupestre da parte di Andrea Benetti, generazione metà anni Sessanta, che specie negli ultimi anni ha condotto una ricerca figurativa e filologica sulle più antiche testimonianze figurative della storia umana non a fini di pura erudizione personale, che pure è da sottintendersi, ma di riappropriazione immaginativa in chiave contemporanea di quelle fantastiche origini dell’espressione artistica ai limiti fra magia e credenze cosmogoniche che appartengono per intero alla presenza sulla terra del genere umano. E lo ha fatto con una passione da esploratore del passato munito di accorti metodi archeologici che lo hanno portato a studiare i siti, le materie e le tecniche con cui venivano eseguite le pitture in grotta, quindi a riproporle, mutatis mutandis, nelle sue nuove composizioni fortemente e volutamente suggestionate dai repertori delle caverne del Paleolitico superiore.
Vi è forse una matrice mistico-romantica nel pensiero che alcuni materiali, come l’ocra rossa di Fumane, possano tornare nuovamente a vivere nelle rielaborazioni attuali di Andrea Benetti, così come riconosciamo la matrice roussoviana nel “Manifesto dell’arte Neorupestre” redatto dall’autore, ma è di sicuro una necessità attuale quella di interrogarci sulle nostre responsabilità nei confronti della natura, tanto a fini etici che di sopravvivenza futura.
Non a tutti è ancora chiaro che l’astronave terra non possiede risorse illimitate e che occorre al più presto riparare ai gravi danni che le sono stati inferti. Benetti ci segnala la via dell’arte primigenia come fonte di presa di coscienza e modo di agire consapevole nella storia attuale.
Marzia Ratti |
Critica e Storica dell’arte |
già Direttrice delle Istituzioni Culturali del Comune della Spezia |