"Il simbolismo nella pittura Neorupestre” di Dario Scarfì
L’arte “Neorupestre” di Andrea Benetti non è fatta su pietra né su parete rocciosa: è fatta su tela. Non ci si aspetti, dunque, un artista con le mani callose e frante, munito di martello e scalpello, sudato e sporco di schegge e di polveri. Al più lo insudiciano qualche macchia di olio, o di henné o di colore.
L’arte “neorupestre” è, dunque, una – finzione; una finzione nella quale – per parafrasare Gorgia – è più saggio chi si lascia ingannare.
La pittura di Benetti ci invita a compiere un viaggio a ritroso: una sorta di regressus ad uterum per farci ritrovare il nostro rapporto e l’equilibrio armonico con la Natura, che i falsi idoli della modernità e del progresso fini a se stessi hanno alterato e ci hanno fatto disperdere.
La “rupe”, cui Benetti affida i propri segni e i propri colori, è una rupe finta nella realtà, e che – tuttavia – richiama l’anelito alla stabilità e alla fermezza, alla forza imperitura del messaggio ad essa affidato; l’idea che di fronte al transeunte vi è l’immutabile e che di fronte al sacro vi è il profano.
L’arte rupestre era un atto magico che si svolgeva all’interno di una caverna; al rito partecipavano l’artista-sacerdote e, forse, anche i capi della tribù: i profani ne rimanevano fuori, “davanti” appunto.
Il segno – inciso graffito dipinto – era il rito, chiamato di volta in volta ad ogni visione, a ricreare l’universo simbolico e spirituale. Questo deve fare chi si accosta alla pittura di Benetti: rientrare nella propria caverna, penetrare il simbolismo delle immagini per accedere all’archetipo del quale il glifo è la mera espressione formale.
Benetti, nel ricostruire questo fitto ordito di rimandi richiami e allusioni (ché l’artista, nessun artista, può svelare del tutto: il mistero è, per propria natura, segreto intimo inspiegabile), intende restituire alle immagini la forza della preghiera. Non agli déi, s’intende; una preghiera laica che punta ai più puri sentimenti del cuore per la stessa forza evocativa delle immagini.
Così, anche le forme “moderne” (le macchine, i giocatori di golf, gli aquiloni o le barche a vela), trattate alla stessa maniera di quelle “naturali” (i fiori, i pesci, l’universo o i cavalli), diventano tormentate visioni che si animano e vivono all’interno delle campiture “naturali” delle diaclasi delle “rocce”.
Dario Scarfì |
Comune di Siracusa – Assessorato alle Politiche Culturali e UNESCO |
Coordinatore del Padiglione “Sicilia” alla 54ª Biennale di Venezia |