Autore | Gregorio Rossi

  • Benetti
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"L'Arte Neorupestre di Benetti” di Gregorio Rossi

Dell’opera di Andrea Benetti in questo scritto mi voglio occupare della sua invenzione e del suo stilema definiti Arte Neorupestre; un concetto pittorico che ha dato vita all’estensione di un manifesto presentato e pubblicato alla Biennale di Venezia del 2009. Già la lettura di questo manifesto fa comprendere che Benetti, pur mutuando da uno studio di quanto rappresentato in un’epoca risalente a trenta o quarantamila anni prima della nostra contemporaneità, non ripropone e neppure rivisita quelle meravigliose pitture rupestri ma, prendendo atto di un tutto già fatto, costruisce ex novo un teorema che si può estendere ben oltre la pittura. Amplifica ciò che nella notte dei tempi era stato prodotto e da lì costruisce una delle novità che ritengo tra le più interessanti del panorama artistico. Nel 1879 de Santualo e sua figlia affermarono che la Grotta di Altamira in Spagna nascondeva pitture eseguite da uomini preistorici; gli studiosi di preistoria scoppiarono in una risata e risero per circa vent’anni. Poi l’abate Breuil e Cartailhac si recarono sul luogo ed alle risate si sostituì lo stupore: le pitture erano autentiche, sicuramente opera degli uomini del Paleolitico ed in bellezza certamente non erano da meno di alcuna pittura moderna. Lo stupore non è un atteggiamento scientifico e gli scienziati sembrano avere in orrore questo sentimento. Andrea Benetti è però un artista con quella sensibilità e quell’intuizione caratteristiche dello sprazzo della genialità; ha intuito quindi la formidabile presenza di uomini che molte decine di secoli orsono espressero con la pittura le più alte aspirazioni del loro spirito. Ha quindi prima avvertito, poi razionalizzato ed infine trasferito queste sensazioni nel suo assolutamente originale dipingere con pigmenti derivati da sostanze non convenzionali con una modalità preistorica, senza copiare la preistoria. Con un esempio unico al mondo è entrato nelle Grotte di Castellana, vi ha esposto i suoi quadri e ha proiettato sulla parete rocciosa il suo bisonte che non è il bisonte né di Altamira né di Lescaux; con un’intuizione più colta che scenografica ha inserito in questa mostra le musiche di un famoso compositore contemporaneo, Frank Nemola, ricordando che alcuni studiosi hanno notato che alle volte la concentrazione della pittura rupestre è in quegli anfratti delle grotte dove vi è la migliore acustica. Benetti ha “perso” quindi dei primitivi ed “acquistato” dei fratelli negli abissi del tempo; ha rifiutato il tema del povero selvaggio abbrutito di animalità che danza nel recesso della caverna davanti all’immagine del bisonte credendo così di preparare la propria vittoria sulla preda della caccia. Forse più tramite l’artista che l’antropologo sapremo chi erano quegli antichi metafisici che possedevano meravigliose tecniche artistiche e che scendevano nelle profondità della terra per raffigurare, con una preoccupazione di eternità, i simboli della loro spiritualità. Ho sopra scritto che Benetti non ripropone il bisonte della preistoria o i graffiti rupestri; la sua è una proposta nuova, un dichiarare che si può ancora ripartire in maniera positiva, pur figli di un secolo travagliato. Tutto questo senza aver dimenticato che l’arte non è tale se non tiene presente la sua tradizione; Michelangelo e Raffaello guardarono le opere degli antichi volendo attingere il buon gusto alla sua sorgente. Raffaello inviò i suoi discepoli in Grecia a disegnare per lui i reperti dell’antichità, trovò in questi capolavori molto di più del bell’aspetto della natura: cioè una bellezza ideale che come già ci insegnava nel remoto passato Proclo nel suo commento del Timeo è composta da figure create solo nell’intelletto. Personalmente credo che il dipinto dovrebbe essere osservato con la speranza di scoprire un segreto: più un segreto dell’esistenza che non quello dell’arte. Ripeto allora che Andrea Benetti non ha riproposto e neppure reinterpretato, ma procedendo con un metodo che non esito a paragonare a quello di Jung, così come il grande psicanalista non ha coniato il termine archetipo, ma l’ha mutuato dai filosofi neoplatonici e l’ha applicato alla psicologia, dicevo allora Benetti ha proceduto in maniera analoga per la sua produzione artistica. I simboli dei quadri non hanno alcuna relazione con la vita e l’esperienza personale certamente vi sono immagazzinati dei ricordi rimossi o delle esperienze dimenticate o delle reminiscenze della storia; ritengo che anche il nostro artista abbia elaborato l’idea di un inconscio collettivo che può spiegare le analogie che quasi certamente sono bagaglio dell’immaginario della psiche e delle culture lontanissime, insomma vi si può percepire un’esperienza archetipa di immagini primordiali che stimolano in noi individui la possibilità di entrare in contatto con l’essenza stessa dell’esperienza dell’umanità. Le opere di Andrea Benetti sono dotate di uno smagliante senso plastico, ma la sua è una scelta simbolica astratta che però l’artista non vuol cercare nelle forme riconducibili all’astrazione contemporanea. La metafisica che ne risulta implicata la descriverei come la scrittura di un pensiero complesso che ancora una volta ha una preoccupazione di eternità. Proprio in questa ottica Benetti si appresta ad “affrescare” le pareti artificiali di quelle gallerie che l’uomo ha scavato come ingresso alle più belle grotte naturali, in maniera tale che queste pitture, diventate neorupestri, abbiano oggi un’attualità che sarà la stessa nei secoli a venire.

Gregorio Rossi
Critico e Storico dell’arte | 
Curatore del Museo di Arte Contemporanea Italiana in America | 
già Curatore del padiglione “Natura e sogni” alla 53ª Biennale di Venezia |