"Il potere delle immagini. Il nuovograffitismo di Andrea Benetti" di Massimo Guastella
É molto più verosimile che queste pitture siano i più antichi relitti dell’universale credenza nell’influenza delle immagini. | Ernst Hans Gombrich
Gombrich dedica le pagine d’avvio del suo fondamentale The Story of Art alle pitture ritrovate nell’Ottocento nelle grotte di Altamira, in Spagna, e di Lascaux, nella Francia meridionale, origine tribale della straordinaria vicenda della storia dell’arte occidentale. Un cammino linguistico lungo e articolato che sin dagli inizi del secolo appena trascorso ha registrato sussulti di non poco conto e che, discostandosi dai canoni e dagli statuti propri dell’arte, si è frantumato in molteplici codici e rivelato di notevole influenza sulla percezione visiva a diversi livelli. E pur tuttavia la pittura primitiva consegnata oramai alle pagine dei manuali di storia dell’arte ritorna degna d’ogni considerazione nell’estro artistico di Andrea Benetti.
Innanzitutto, nella produzione dell’artista bolognese, ridiventa centro delle attenzioni quel potere delle immagini che sin dalle origini la pittura e l’arte in genere hanno esercitato su intere comunità nel corso della storia.
Andrea Benetti, declinandolo attraverso le invenzioni primitive, è soprattutto interessato a passare dalle sedimentazioni dell’immaginario preistorico alla descrizione di ambienti del paesaggio contemporaneo. Le sue opere rappresentano apertamente scenari visionari, che carichi delle memorie iconiche primordiali s’innestano sulle idee del tutto personali sull’arte.
Per lui nella cultura occidentale, dopo l’11 settembre, è giunto il momento di azzerare, ripartire da capo («Noi dobbiamo ripartire dagli albori dell’uomo e dall’arte primigenia, per ricostruire un nuovo mondo, in cui il rispetto per la natura e per la dignità umana siano finalmente al centro del volere dell’uomo») ovvero è necessario riconsegnare contenuti e ridestare interessi nei confronti della condizione esistenziale e del rispetto per la natura nella civiltà contemporanea («quella stessa natura con cui dobbiamo ritornare in armonia e ricominciare a rispettare e ad amare»), eludendo, in particolare nel fare artistico, gesti e concettualizzazioni autoreferenziali gratuitamente provocatorie e fini a se stesse («Una lavatrice rotta o una bicicletta arrugginita non sono arte, ma semplicemente una lavatrice rotta ed una bicicletta arrugginita. L’arte è tutt’altra cosa»).
In una fase storica in cui si rischia l’autodistruzione del pianeta, ciò è quanto, dunque, emerge dal suo Manifesto dell’arte neorupestre, proposto nel 2009 alla 53ª Biennale di Venezia (Padiglione I.I.L.A. – Costa Rica, Natura e sogni), in cui palesa la sua intenzionalità in rapporto a quello che produce: «L’arte deve simbolicamente ripartire dalla proprie origini (…) avrà la lungimiranza di ritornare sui propri passi, verso le proprie radici, consapevole della necessità di dare un segnale chiaro e forte di ricostruzione delle fondamenta, che sono alla base della nostra esistenza».
Benetti propone la forza del simbolo con modalità e icone moderne. In tal senso è uno stratega dell’arte che mette a frutto la sua poliedrica formazione e, in particolare, affiora la sua testa pensante da manager aziendale, che ha attitudine all’organizzazione del lavoro e alle tecniche di comunicazione, per di più supportate da una sensibilità ambientalista e politica. Sa come focalizzare le dovute attenzioni sulla sua produzione: con perizia manageriale, bypassando il sistema dell’arte, ha guadagnato alcune mete espositive di indubbio valore, dalla Biennale veneziana alla 61ª edizione del Premio Michetti, a Francavilla al mare, e a Palazzo Taverna, nella capitale, sede dell’Amedeo Modigliani Institut Archives Legales. In queste occasioni espositive ed altre come quella che presentiamo in questa sede, il pittore ha presentato le sue pitture recenti che -come ha puntualmente osservato Silvia Grandi- hanno assunto quei caratteri linguistici collocabili nelle esperienze simboliste approdate negli esiti pop, entro cui si registra una operatività di tipo concettuale, non senza, mi pare di poter aggiungere, quelle associazioni tra figure, segni e forme di sapore surrealista e prestiti dagli stili astraenti dei grandi maestri delle avanguardie amati dall’artista (Vasilij Kandinskij, Paul Klee, Joan Mirò), che danno ai suoi modi un’impronta eclettica.
Sui supporti, lui veicola un intricato insieme di figure agevolmente decodificabili, che orientano il senso di annullamento e di rinascita in una collisione cronologica di significati sedimentati nella memoria, in chiave ora di repechage del repertorio pittorico preistorico, in cui animali e cacciatori stilizzati, ossia prede e predatori, danno vita a scenari magico – propiziatori, ora di proiezione contemporanea ove si alterna, a composizioni decorativamente fitomorfe, una rinnovata galleria di prede e predatori o, per meglio dire, di consumi e consumatori: automobiline, velivoli, imbarcazioni, paesaggi marini, giocatori e campi da golf.
È un assortimento, sospeso nell’atmosfera irreale dello spazio, composto da forme astratte e campi colore, che dettaglia i nuovi simboli del momento culturale che essi rappresentano. In una osservazione meticolosa della materia, combinando sui fondi in gesso colori acrilici a sostanze naturali (caffè, karkadè, cacao, hennè) che soddisfano le personali opzioni cromatiche, imprime pattern sulla materia densa che danno rilievo ed evidenza alle sue icone, quasi ad alludere ad una tridimensionalità spaziale. Con una sorta di cloisonnisme alla Gauguin, definisce al fine le sue immagini nel tentativo di sortire nell’immediatezza visiva una lettura semplificata dei tratti principali delle figure, che, campite di colore, sono subito riconoscibili.
Lo sguardo visionario di Andrea Benetti fissa, tra realtà e finzioni, la sua poetica; costruisce frammentari scenari, sereni e perfino divertenti, di vita contemporanea, che tuttavia al tempo stesso divengono metafora della crescente inettitudine e della consuetudine a una irresponsabile quanto confortevole spensieratezza quasi gaudente, priva di sentimenti ed emozioni quanto di preoccupazioni concrete; dunque rappresentano la condizione precaria dell’umanità, il cui comportamento viaggia costantemente sul Titanic in rotta verso la rovina imminente, come l’intende lo stesso artista. Le tematiche invitano a una riflessione più esplicitamente politica sulle problematiche rimosse dall’uomo, segnatamente sulla sua condizione attuale, e vede nel ritorno all’armonia con la natura l’unica possibile forma di riabilitazione.
Con sapiente capacità di suggestione, cioè innescando l’ambiguità delle visioni, Benetti è intenzionato a risvegliare in ogni spettatore tanto il piacere per l’iconico quanto le coscienze, mediante rappresentazioni ironiche sebbene funzionali: quindi rende più esplicito il dialogo tra l’artista e la collettività, facendo leva sul magico potere evocativo delle immagini.
Prof. Massimo Guastella |
Docente di Storia dell’Arte Contemporanea |
Università del Salento | Lecce |