"Aprire squarci all'immaginario" di Ada Patrizia Fiorillo
Il fascino del passato non è certo cosa nuova nell’esperienze dell’arte: ce ne rende testimonianza quella lunga sequela di esplorazioni tradotte in movimenti o correnti sovente presentate nella loro denominazione con il prefisso “neo”. Un’adozione che in diversi casi ha coinciso con il carattere di un revival, in altri ha significato il riconoscimento di valori da adottare, oltre gli stessi trascorsi del tempo, come espressione di una creatività trasferita nella sua perenne attualità. Andrea Benetti con il suo lavoro di pittore condotto ormai da qualche decennio, in particolare con le esperienze che, a partire dal 2006, ha circoscritto alla redazione del “Manifesto dell’Arte Neorupestre”, sembra porsi per certi versi a metà strada tra l’una e l’altra posizione. Da questa data in avanti ha assunto nelle sue opere iconografie il cui rimando, anche in forma espressamente tautologica, non lascia dubbi sul legame (ritorno) a linguaggi premoderni o arcaici quale possono dirsi le prime tracce di comunicazione dell’età paleolitica, mentre dall’altro vi ha immesso (continua a farlo) una falda interpretativa che tende ad attualizzare, anche con una dose di ironia, quell’alba così lontana che non avrebbe ragione di esistere se non riproposta con la sensibilità e lo sguardo dell’uomo contemporaneo. In sostanza mi sembra che Benetti metta in atto una sorta di metapicture, vale a dire un annidamento di un’immagine in un’altra che, nel suo caso, non si dà quale esplicito sdoppiamento di un medium in un altro, quanto piuttosto in livelli di trasposizione che vanno in qualche modo decodificati. Bisogna insomma superare il livello del deliberato richiamo al passato emergente dal suo manifesto, anche le evidenze macroscopiche della sua pittura, per scoprire in essa, nei segni minuti o nelle icone aderenti alla scena contemporanea, il senso più vitale di tale ritorno. Del resto per questa mostra che egli propone oggi, nella cornice di Palazzo Turchi di Bagno, sede del Sistema Museale di Ateneo ferrarese, il titolo scelto è, non a caso, “preHistoria contemporanea”. Benetti vi propone un certo numero di disegni su carta e di tele affiancati da alcuni calchi di opere preistoriche concesse dal Museo Archeologico Nazionale di Ferrara. Un dialogo che dovrebbe in tal senso rafforzare le opportunità di riflettere sul tempo, sul suo registro, sui valori che la storia ha la capacità di trasmetterci, a patto di saperla leggere e reinterpretare per scoprirvi il senso di una modernità che la solleva da ingessature e da piedistalli, per renderla fluida, scorrevole, ovvero presente. Ho avuto l’impressione guardando alcune opere come i disegni Lo sciamano di Garing, Uomo e cavallo, entrambi del 2012, realizzati con carbone, sanguigna e gesso su carta di Montesanto o, pertinentemente al percorso di questa mostra, le tele Ominidi con spirale, Ominidi paleolitici I, Animale paleolitico realizzate nel 2015 nelle quali fa uso di sedimenti ottenuti dalla pulizia di reperti rinvenuti nella grotta di Fumane all’incirca 40.000 anni fa, che l’artista si diverta proprio ad instaurare un corto circuito visivo. Avverte molto incombente questa aura del passato, tanto da utilizzarne, come materia e memoria, i resti (terra e polveri) o i dispositivi (la carta di Montesanto), senza che ciò riesca, fortunatamente, a sollevarlo dalla propria condizione presente. Il gioco della sintesi, il taglio ingenuo, la piattezza priva di profondità di quelle figure, galleggianti come su uno schermo, ne danno ragione. L’interesse dunque per i territori del primigenio, la pregnanza dei segni ridotti a simboli di un codice universale, si trasferiscono cosi nell’evidenza di una pittura che cerca proprio nel simbolico le ragioni del vitalistico. È questa in fondo la cifra più persuasiva della sua esperienza. Con leggerezza Benetti lascia migrare le immagini, abbatte i confini tra passato, presente e futuro. In tal senso le figure sottratte al paleolitico, così come alla sfera del contingente, barchette e scooter, fiori e animali, accolte in alcune opere pur sempre recenti, tessono il filo di un pensiero fervido, ma non ingenuo né inconsapevole dell’opportunità che il progresso permette. Di questo si serve per veicolare le proprie immagini, non i propri quadri, accogliendo la distinzione operata da William J.T. Mitchell tra image (l’immagine vera e propria) e picture (l’oggetto materiale) per la quale la prima è ciò che si mostra nella seconda, «ciò – spiega lo studioso – che sopravvive alla sua distruzione – nella memoria, nella narrazione, in copie e tracce preservate in altri media». Il valore di un’immagine del resto non è quello di appartenere ad una categoria di somiglianza, ma nel suo essere veicolo per spianare strade alla fantasia, alla percezione, alla memoria, ovvero all’immaginario.
Prof. Ada Patrizia Fiorillo |
Dipartimento di Studi Umanistici |
Storia dell’Arte Contemporanea |
Università degli Studi di Ferrara |