"Ritratto d'artista o artista ritratto?” di Pierfrancesco Pensosi
L’opera d’arte al tempo dei bit ha cambiato la sua natura. Le nuove tecnologie hanno rivoluzionato non solo il modo di percepire il mondo esterno, ma soprattutto il modo di come l’artista si mette in gioco. Se nel 900 il museo è il luogo dove l’arte vive e fa discutere di se, la rete, oggi, diventa il punto di incontro di una grande agorà virtuale e in cui tutti partecipano alla creazione artistica. Ma c’è di più, questo grande fratello
della conoscenza mette in gioco prima di tutto lo stesso artista. È un nuovo modo di vedere, di concepire la vita e la cultura. Lontano ormai dal tentativo di convincere, lo stesso artista, diventa esso stesso parte di un dibattito: è un teatro aperto che lascia a chi vuole il piacere di cimentarsi. L’artista non propone più modelli perché ormai ambisce egli stesso ad essere modello di comportamento, proponendo la propria immagine come autocritica. Ma questo mettersi in gioco per l’artista significa fondamentalmente l’accettazione di un rischio di una perdita. E’ il tentativo nel quadro della lotta dell’individuo di affermarsi e sussistere.
L’artista diventa egli stesso segno che si riferisce ad una realtà al di fuori: esiste nel senso dell’ex-sistere, porsi fuori, emergere dal mondo per affermare la propria individualità. Ma in questo aprirsi all’orizzonte scopre la sospensione nel vuoto e prende coscienza della condanna dell’esistenza stessa: la vita implica il rischio di una scommessa in cui l’individuo impegna tutto se stesso, ma lo impegna per guadagnare la consapevolezza della necessità di perderlo. L’accettazione dell’esistere nella sua radicale finitezza è in fondo un essere per la fine: l’esperienza dell’arte diventa quindi
affine alla morte e l’artista al suicidio. L’artista, diventato egli stesso opera, se nel contempo distrugge l’illusione di eternità, nello stesso tempo ne costruisce e fissa una seconda alternativa, gravida di vita. Siamo nella forma simbolica che rappresenta per Cassirer il luogo tipicamente umano dove le determinazioni dell’ambiente anziché essere subite passivamente trovano la via di mediazione e di una elaborazione che culmina nella funzione espressiva e ci restituisce l’impressione di un mondo instabile e incoerente.
Il vero artista si rivela proprio in quanto in lui si fanno espliciti i momenti e le tendenze dell’in-se che si rivolgono al soggetto, all’autocoscienza dell’uomo in quanto egli non si arresta nella mera soggettività individuale, ne universalizza fino a cedere all’astrazione, ma cerca e trova quel medio in cui la vicenda umana diventa la voce dell’umanità, il fuggevole hic-et-nunc diventa l’indice di una svolta storica significativa per il genere umano: ogni immagine diventa immediata espressione sensibile della sua essenza. L’artista offre dunque di se un’immagine su cui meditare e in cui scoprire le proprie identità. L’osservatore spera di trovare qualcosa di definitivo e di permanente, qualcosa di immutabile da cui dipendere, gli viene invece offerta la riflessione sulla vita come fardello mutevole, ambiguo, effimero e misto. L’artista non parlando per dogmi, ma attraverso simboli, lampi e metafore, spinge lo spettatore a volgersi all’interno di se stesso. L’opera d’arte non esprime un fatto, piuttosto il prorompere inarrestabile della vita, il suo continuo rinnovarsi, il suo eterno movimento, l’elan vital.
Parafrasando una frase di Bataille, possiamo affermare che l’artista diviene il simbolo di una cultura, l’affermazione sovrana di un enigma che nasce e si sviluppa attraverso la formulazione di interrogativi e l’esperienza di contraddizioni. Il compito dell’artista è quello di avere ribadito il carattere enigmatico della condizioni umana, mostrando il mondo, attraverso di sé, come un vasto sistema permutatorio in cui l’alto e il basso, il maschile e il femminile , il luminoso e il tenebroso, l’organico e l’inorganico, la vita e la morte non cessano di scambiarsi e di combinarsi. L’artista diviene così un nuotatore in acque sconosciute dove può accadere di dover capovolgere le proprie certezze, dove la malattia può essere benessere e la normalità malattia, dove la realtà può trovarsi nell’ebbrezza e non nella sobrietà. Nei suoi lungi silenzi l’opera artistica non ci chiuderà mai nel castello di Atlante di un sistema di concetti, ma si mostrerà come urfragen, domande senza risposta e ci donerà il piacere di essere liberi ricordandoci che: “Breve è la vita, ma lunga l’arte”.
Pierfrancesco Pensosi |
Professore di “Teorie e Tecniche dei Nuovi Media” |
Facoltà di Lettere e Filosofia – Università statale di Perugia |
Critico e storico dell’arte |