"Segni emergenti" di Silvia Grandi
Scrivendo delle opere di Andrea Benetti per altre occasioni espositive, ho avuto modo di mettere in risalto quanto i suoi soggetti si possano mettere in relazione con forme artistiche arcaiche, connesse con una modalità pittorico-espressiva che ci riporta alle atmosfere degli artisti primitivi o pre-moderni, dove il mondo fenomenico e realista, ricco di dettagli icastici e descrittivi, sparisce in favore di una simbologia iconica semplificata e ridotta. Nei suoi quadri spesso troviamo figure ambigue, che richiamano alla mente forme di oggetti e di utensili in bilico tra un passato arcaico, che implode fino alle origini dell’espressività dell’uomo, e un futuro ipertecnologico, in cui le cose e le persone si trasfigurano in elementi simbolici, quasi araldici e, in quanto tali, si dispongono di volta in volta in ritmi compositivi sempre diversi. In ogni figura emerge l’outlined, quella linea di contorno netta che oggi è tornata tanto in uso anche tra i wallpainter e gli street artist, ma che possiamo tranquillamente mettere in relazione con l’analoga pratica ottocentesca della cloisonne tanto cara ai Simbolisti. L’intenzione di Benetti è quella di dare forma ad un’idea, ad un’immagine non naturalistica ma decodificabile secondo principi e abitudini visive ormai entrate di fatto nella nostra capacità di interpretare l’attuale repertorio del visibile, fatto appunto di icone, di simboli, di immagini sintetiche che con pochi tratti ci dicono tanto, in perfetta sintonia con la cartellonistica, la pubblicità, la comunicazione mediale e soprattutto il linguaggio dei computer. Con l’adozione del contorno netto e deciso e la stesura cromatica piatta, al posto dello sfumato e degli effetti illusori tridimensionali della pittura realistica, Benetti costruisce non solo una nuova spazialità, ma nei dipinti determina l’aspetto stereometrico delle icone raffigurate e la loro emergenza rispetto allo sfondo. Nella serie di lavori realizzati per la mostra VR60768 – Anthropomorphic figure il percorso a ritroso di Benetti verso le “origini” della storia dell’arte e dell’antropologia culturale si fa ancor più regressivo, citando le prime forme di pittura rupestre di cui si ha testimonianza in Italia e scegliendo inoltre una tavolozza cromatica ridotta ed essenziale, come quella delle due pietre preistoriche rinvenute nelle grotte di Fumane. In questi nuovi dipinti Benetti non riempie di colore le icone antropomorfiche e i simboli, ma li lascia scarni, come semplici segni che emergono più o meno evidenti o in trasparenza su un fondo pittorico che diventa mosso, granuloso, pronto a coagularsi in inconsuete mischie materico-cromatiche utilizzando elementi originari provenienti dalle stratificazioni degli scavi delle due pietre di Fumane, la terra, l’ocra, il carbone, ma anche i sedimenti risultanti dal lavaggio dei reperti. La rilettura e la reinterpretazione del passato arcaico, quello dell’origine dell’espressività pittorica dei nostri lontani antenati, risulta affascinante, ma non priva di alcune perturbanti stilistiche che mettono in evidenza la distanza temporale che intercorre tra le pietre originali e le opere di Benetti: sulle tele, i bianchi e gli azzurri, che si alternano ai colori terrosi che ricordano la pietra, sembrano simulare sprazzi di cielo e di atmosfera, ponendosi proprio come sfondamenti dello spazio pittorico, in cui i semplici segni emergono in tutta la loro potenza espressiva di simboli neoarcaici.
Prof. Silvia Grandi |
Docente e Ricercatrice di Fenomenologia dell’Arte Contemporanea |
Facoltà di Lettere e Filosofia – Dipartimento delle Arti |
Università di Bologna |