"Dalla roccia alla tela - Il travertino nella pittura Neorupestre" di Stefano Papetti
La sperimentazione delle nuove tecnologie applicate alla produzione artistica genera sorprendentemente, per una sorta di contrappasso, un inaspettato interesse verso lo studio delle antiche tecniche sfruttate dagli artisti dei secoli passati, nella convinzione che da questo confronto con le pratiche millenarie possa scaturire l’opportunità di proporre al pubblico nuovi messaggi formali sostenuti dal retaggio delle antiche consuetudini operative. Sono molti i giovani artisti contemporanei che, pur non rinunciando a sfruttare quanto di più aggiornato la moderna tecnologia mette a loro disposizione, si appassionano alla conoscenza delle antiche tecniche praticate nelle botteghe artistiche del Medioevo e del Rinascimento e vanno a rileggere le pagine in cui Cennino Cennini descriveva, sul finire del XIV secolo, i modi con i quali preparare un intonaco per realizzare un affresco o la imprimitura per un dipinto su tavola, lasciando affascinati gli artisti di oggi nell’apprendere i procedimenti attraverso i quali comporre i pigmenti più rari e costosi. Non si resterà dunque sorpresi se nelle austere sale del Palazzo dei Capitani del Popolo di Ascoli Piceno, nelle prossime settimane, si potrà effettuare un vero e proprio salto indietro nei millenni grazie alla esposizione dei dipinti realizzati da Andrea Benetti, promotore di un’arte che lui stesso definisce Neorupestre. Si sovrapporranno negli occhi dei visitatori le moderne creazioni di Benetti con le immagini più note lasciate dagli uomini del Paleolitico nelle grotte di Lascaux o di Altamira, con i segni simbolici che affollano le balze rocciose di alcune località dell’Appennino ligure occidentale (come la Ciappa delle Conche nel Finalese) o della Valcamonica, nel quadro del recupero di un comune sentire che affonda le proprie radici nelle fasi primordiali dello sviluppo dell’uomo. I segni convenzionali che Benetti utilizza per i suoi dipinti provengono da un passato remoto nel quale le simbologie ricorrenti fanno riferimento alla caccia e alle pratiche agricole, rappresentando per l’uomo preistorico un rito propiziatorio e scaramantico: nella interpretazione che di quei segni ci propone l’artista contemporaneo questo valore si perde a favore di una rilettura grafica e decorativa delle immagini, stilizzate secondo un procedimento che raggiunge effetti di grande efficacia descrittiva ed evocativa. In occasione di questa esposizione ascolana, l’autore ha pensato di avvalersi anche del travertino, la caratteristica pietra che connota la natura circostante la città picena e che, grazie all’abilità di anonimi lapicidi, è stata utilizzata per tutta l’edilizia maggiore e minore della città picena sin dal periodo romano. Il colore caldo e mutevole del travertino, la sua porosità e la capacità di reagire alle sollecitazioni luminose hanno concorso ad animare gli stilemi propri all’artista con effetti di grande suggestione che possono definirsi poetici e che esprimono le potenzialità artistiche del travertino.
Prof. Stefano Papetti |
Docente di Museologia e Restauro dei Beni Storico-Artistici |
Università degli Studi di Camerino |