"Astrattismo delle origini · Ritorni, armonie e proiezioni” di Toti Carpentieri
Di quante cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sé.
Luigi Pirandello
A ben guardare, non possiamo non condividere quel richiamo al “doveroso rispetto per la natura e per l’essere umano” su cui Andrea Benetti si dilunga nei primi righi o quasi del suo Manifesto dell’Arte Neorupestre, conferendo all’arte il dovere/diritto di ripartire “simbolicamente dalle proprie origini”, possedendo i simboli “una forza pari soltanto alla forza della natura; quella stessa natura con cui dobbiamo ritornare in armonia e ricominciare a rispettare e ad amare”. E non lo possiamo, per una serie di motivazioni che si articolano e concretizzano nel riferimento al nome di Joseph Beuys e nella piena adesione al suo pensiero. Vuoi per la costante e peregrina vicinanza personale, non certo casuale, che il tredici maggio millenovecentottantaquattro, a Bolognano, ci consentì di vivere il felice momento dell’Incontro con Beuys con la famosa discussione “Difesa della Natura” e la messa a dimora della Prima Quercia Italiana in ricordo della “7000 Querce” di Kassel, vuoi per l’assoluto assenso a quella sorta di affermazione/invito/imperio del Maestro tedesco che recita: “Abbiamo il dovere di mostrare al mondo ciò che siamo stati capaci di fare nella e della nostra vita”.
Ed è in tale ambito che, a nostro avviso, si inserisce “Astrattismo delle origini”, questo nuovo incontro con le opere di Andrea Benetti, impegnate a dialogare con gli spazi del Castello di Carlo V a Lecce, riconoscendo alle stesse lo status di luoghi della partecipazione e della contemporaneità, muovendosi da quel gesto iniziale sulle rocce della cueva de Altamira e/o della Grotta del Cervo di Badisco, e consentendo alla memoria di divenire presente e progetto di ogni futuro possibile. Quello che nei valori opponibili di iconico/aniconico –sempre presenti nel lungo percorso della storia dell’arte, e contemporanei già nella pittura rupestre- dei dipinti (ma sono ancora e soltanto tali?) dell’artista bolognese trova oggi dimensione estetica, significazione espressiva e conferma etica, grazie a quelle che potremmo definire le relazioni tra piano, tempo e spazio. La tecnica, innanzi tutto, con il suo riandare a modus operandi memorizzati e memorizzabili tesi a costruire superfici narrative omogenee ed essenziali, poi l’attimo quale approccio alla memoria ma anche unità ritmica che spiega il suo dialogare –in altri luoghi e in altri momenti- con la musica tra timbri e frequenze, e infine lo superficie stessa dell’opera da leggersi come intervallo, battuta, periodo di una capacità espressiva complessa assurta a metodo legittimato.
E accade, allora, di riconoscere nelle opere, quasi fossero i nuovi paesaggi del quotidiano, figure e forme che giocano sull’allusione e sui riferimenti, talvolta schiacciate e come impresse, talaltra da intendersi come immagini e simboli, se non proprio icone. Stelle a cinque e a sei punte, omini, animali, oggetti di uso comune, rettangoli, mezzelune, zigzag, triangoli, sbuffi, sagome femminili, ghirigori, stilemi, vele, ottagoni, cuori, tondi, quadrati … l’uno all’altro accostati e sovrapposti in una accumulazione cromatica (quanti colori!) che sembra negare ordini e sequenze, e che pur nella variabilità della disposizione e delle combinazioni comunica una sorta di mappa genica in fieri e quindi mutevole.
E’ come se l’artista avesse inventato una sorta di alfabeto personale costituito da forme e modelli (allusivi e illusorii) extradimensionali dal contorno netto e dalla stesura cromatica piatta, spesso attivando memorie personali e collettive, culture lontane, dialoghi urlati e rumorosi silenzi, consentendo alla figura/forma/oggetto di divenire centro entropico di una comunicazione non più unilinguistica ma sinestetica con altri schemi e con altre procedure, e come tale a plurima modalità percettiva e cognitiva, tra segni e suoni, tra gesto e invenzione. Le immagini, come cristallizzate, rivelano una tensione plastica che sembra accrescersi perfino nell’attingere alla cultura urbana, ricca di riconoscibilità immediate e mutevoli, sollecitandoci ad un’operazione di amalgama che, nel mettere insieme secondo modalità al tempo medesimo semplici e complesse, memorie e quotidianità, da vita a nuovi linguaggi e a nuovi stili. Fino a giungere ad una narrazione oltre che, tra casuale ed intenzionale, sembra chiudere il cerchio riconoscendo al significato la contemporaneità dell’oggettivazione, della rappresentazione e della referenzialità. In quell’entrare nella dimensione pubblica e in quell’uscire all’aperto di beuysiana memoria.
Toti Carpentieri |
Critico e storico dell’arte |